Campi Flegrei

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Maggio 2009
Campi Flegrei, viaggio nel mito

Quando ancora non erano conosciute Pompei ed Ercolano, né ai piedi del Vesuvio erano iniziate le campagne di scavi che tra diciottesimo e diciannovesimo secolo avrebbero portato alla luce alcuni dei più celebri siti archeologici del mondo, nel napoletano erano quelle dell’area flegrea le località più accorsate dai viaggiatori stranieri. Nei tour che dal medioevo intellettuali e mercanti intraprendevano alla volta dei luoghi della classicità, l’antica Puteoli, con la Solfatara, e l’antro della Sibilla a Cuma e altresì Baia e il lago d’Averno erano mete obbligate. I viaggiatori vi giungevano da ogni parte d’Europa con un misto di curiosità e di paura per ciò che avevano inteso dire di quella terra spettacolare e sulfurea, in cui pareva si fronteggiassero, fin dall’antichità, la luce e le tenebre. Un paesaggio dalle straordinarie risorse sul piano archeologico e artistico, di cui solo di recente, dopo una lunga campagna di risanamento e di scavi, è possibile avere un quadro d’assieme, lungo precisi e integrati itinerari di visita, come quelli proposti dal progetto regionale “Retour Campi Flegrei” che, recuperando la filosofia dei musei diffusi, apre ad un turismo culturale interpretato come lenta, consapevole immersione nella realtà di un territorio, legando sensi e sguardo in un percorso di comprensione colmo non solo di concreti riferimenti storici-artistici, ma anche di sentimenti e di poesia.

Del resto le suggestioni della terra flegrea sono inesauribili. Suggestioni mille volte tradotte in dipinti ed incisioni che tra Cinquecento e Ottocento registrano anche i mutamenti del paesaggio e dell’ambiente. Perché quello flegreo è territorio mobile, irrequieto. Antica area vulcanica tuttora attiva, è nota per i suoi crateri bassi, le sue fumarole, le sue preziose acque termali, il suo pungente odore di zolfo e i suoi movimenti tellurici, lenti e a volte lentissimi, che hanno sepolto e dissepolto come in un gioco alternato di apparizioni e di nascondimenti interi tratti della costa e dell’interno; o repentini, come quello che nel 1538, in una sola notte, determinò la comparsa da una bocca di fuoco del Monte Nuovo. Territorio di antichi insediamenti (fin dall’ottavo secolo avanti Cristo vi giunsero le profughe popolazione greche) e di traffici mercantili (Puteoli fu il più importante porto della penisola in epoca romana) e di nobiliari presenze (l’aristocrazia romana vi soggiornò per secoli e a Baia creò i suoi più accorsati luoghi di ozio dell’impero), ma anche di inquietanti, oscuri misteri. Qui si pronunciavano i vaticini, nel celebre antro della Sibilla, a Cuma; qui gli antichi pensarono l’ingresso dell’Ade, presso la bocca dei crateri o lungo le nere sponde del lago Averno. Ma quello flegreo è anche territorio di stupefacenti bellezze. Che catturano lo sguardo, se appena lo si leva a sfiorare i crinali delle verdi colline che lo segnano morbidamente tra cielo e mare, o spazia in largo giro, scrutando il mare azzurrissimo da sud a nord, oltre il capo Miseno. Terra singolare, unica quella flegrea, non solo e non tanto per il suo straordinario tratto naturalistico e neppure per le vestigia così ricche del passato, quanto per le implicazioni che il connubio tra natura e insediamento umano ha storicamente e socialmente comportato sullo sfondo di un costante confronto con il mistero della vita.

Ai greci si deve la attuale denominazione del territorio, che deriva da flégo, “ardere”, prendendo spunto dalla penisola calcidica di Flegra, terra vulcanica dove secondo la mitologia avvenne la battaglia tra gli dei e i giganti che avevano tentato la scalata all’Olimpo. Ma fu soprattutto in epoca romana che la località assunse un’ importanza strategica nel novero delle rotte commerciali che intrecciavano rapporti con l’oriente del mediterraneo e le coste africane. Ciò è testimoniato da notevoli insediamenti urbani, a Pozzuoli, a Cuma, a Baia. Un’area composita, stratificata sotto il profilo storico-artistico, ma anche originalmente compatta sul piano culturale e turistico, la cui conoscenza non può essere fatta che all’interno della sua stessa complessità, della varietà delle sue risorse culturali e paesaggistiche. E’ anche per questo che i Campi Flegrei si configurano esemplarmente in quella definizione oggi coniata di museo diffuso, come spazio polivalente e aperto di interessi transdisciplinari da investigare e preservare. A tentare di delinearne un itinerario esplorativo, non si può che partire da Pozzuoli, l’antica Puteoli, sorta nel 197 a.C. Il Rione Terra, da poco restaurato, sede altresì del primitivo insediamento greco di Detiarchia, fondato nel 530 a.C., dove è la cattedrale di recente restaurata, era in realtà l’Acropoli della città, di cui oggi è possibile esplorare alcuni camminamento sotterranei e identificare i tracciati delle principali e originarie linee viarie. Il Tempio di Serapide è situato nella parte bassa di Pozzuoli. Impropriamente è detto “tempio”, giacché durante lo scavo del 1750 fu rinvenuta una statua del dio egiziano Serapis. In realtà è un mercato del I-II sec. d.C., di cui restano ben conservate le taberne, distribuite attorno ad un porticato.

I fori presenti a varie altezze sui fusti delle colonne residue sono scavati nel marmo da molluschi chiamati litodomi, e permettono di documentare la variazione del livello delle acque termominerali. L’ Anfiteatro Flavio è uno dei due anfiteatri romani esistenti a Pozzuoli. La sua progettazione si fa risalire agli architetti del Colosseo. Sembra infatti che sia stato edificato durante l’impero di Vespasiano e inaugurato con Tito. Tuttavia la fabbrica presenta parti realizzate con la tecnica dell’ opus reticulatum, il che farebbe pensare ad una costruzione precedente. Le rovine di altro anfiteatro di minori dimensioni furono riconosciute in seguito ai lavori dell’apertura del tronco della direttissima Roma – Napoli. Di esso si ha testimonianza in un vaso di vetro di “http://it.wikipedia.org/wiki/Odemira” \o “Odemira” Odemira, in cui, insieme con altri edifici puteolani, sono rappresentati, due anfiteatri: il primo, inferiore, contrassegnato dall’emblema del flagello, e che si pensa destinato alle venationes; il secondo, superiore, contrassegnato da una palma, probabilmente utilizzato per i combattimenti fra gladiatori. Numerosi sono comunque i resti dell’antica città romana, spesso situati all’interno delle aree abitate, come quelli del Circo Massimo, realizzato sotto Antonino Pio, in via Campi Flegrei, e della necropoli romana di via Celle, attualmente in stato di abbandono. Oltre la cinta muraria è la Solfatara, l’unico cratere in attività del complesso vulcanico dei Campi. La sua vista, ancora oggi, entro il bruno invaso da cui fuoriescono i fumi, più densi nelle giornate di umido e di pioggia, procura un senso di disagio. Nei pressi è la basilica di San Gennaro, più volte ricostruita dalle rovine del precedente tempio, fino all’ultima edificazione ottocentesca. Qui la tradizione volle che fosse martirizzato Gennaro, nel settembre del 305. Della primitiva fabbrica resta forse l’altare, che il popolo venera come il cippo su cui il santo venne decapitato. Nei pressi di Pozzuoli è il lago d’Averno, di origine vulcanica. La sua denominazione viene dal greco e significa “senza uccelli”.

cumasettembre34Erano i gas sulfurei che probabilmente avvelenavano i volatili. Gli antichi lo credevano la porta degli inferi, suggestionati dalla plumbea pesantezza del suo specchio d’acqua e favoleggiavano che presso il lago vivesse il popolo dei Cimmeri, in grotte e cavità sotterranee: la popolazione presso cui Omero fa giungere Ulisse per interrogare Tiresia, l’oracolo dei morti, prima del suo ingresso nell’Ade. Agrippa, genero di Augusto, fece disboscare le sue rive e lo collegò al lago Lucrino e quindi al mare con una canale navigabile, creando il Portus Julius. Una galleria univa lo stesso porto a Cuma, dove è uno dei più celebri monumenti dell’antichità, la Grotta della Sibilla. Echeggiano i versi dell’Eneide: Poscere fata / tempus, ait – deus, ecce deus! […è tempo / di chiedere i fati, disse – il dio, ecco il dio!]. I turisti vi arrivano da ogni parte, percorrono il tunnel a forma di trapezio a percepire la voce di colei che affidava le profezie alle foglie e al vento. Il Monte Nuovo è un vulcano di un centinaio di metri in cui è accaduta una singolare inversione vegetazionale. A seguito delle particolari condizioni climatiche all’interno del suo cratere, la macchia mediterranea prospera a quota più alta rispetto a specie come il castagno, la roverella, il biancospino, il carpino, che qui occupano le zone più basse dell’invaso. Baia è una località insospettabile. E’ nota per il possente castello, ove ha sede il Museo Archeologico dei Campi Flegrei, bastione aragonese in posizione strategica. I recenti rinvenimenti, con la delimitazione del parco sommerso, la ricostruzione aerea del sito, lungo le pendici dei costoni tufacei, i resti delle imponenti ville romane, fanno pensare ad un vero e proprio centro di otia, con immense piscine termali e terrazze di marmo, su cui i ricchi della capitale si concedevano il riposo. Qui probabilmente era la villa di Giulio Cesare, di cui parla Tacito, a cavallo di un costone di roccia, qui erano le residenze degli imperatori, che fino ai primi secoli ed oltre correntemente frequentarono l’area della costa puteolana, nonostante l’instabilità del suolo, la precarietà degli insediamenti. Qualcosa al di là di tutto attraeva di questa terra, irresistibilmente. Forse, chissà, è stata la prossimità al mistero.
Giorgio Agnisola