AVVENIRE Aprile 2009
Pagina ARTE, pag. 24 – Napoli 31-03-09 – Gemito, scugnizzi e guaglione
Per la prima volta un’accurata mostra rende giustizia al grande scultore tra ‘800 e ‘900: finora la sua opera, sospesa tra classico e moderno, è stata poco compresa e valorizzata, se si eccettuano due rassegne non così complete
DA NAPOLI GIORGIO AGNISOLA
Un autoritratto di Vincenzo Gemito, presente nella grande mostra a lui dedicata a cura di Denise Maria Pagano e appena inaugurata a Napoli a Villa Pignatelli, una creta cruda del 1915, rivela nella suggestiva complessità dell’opera il genio e lo stile maturo del maestro partenopeo. Gemito si ritrae con un registro di ispirazione ellenistica, con la barba ampia, su cui si adagia la curva mossa dei capelli. La piega obliqua della bocca ha un che di ironico, persino di grottesco. Lo sguardo è quasi un ghigno: l’occhio destro semichiuso, quello sinistro spalancato, un sopracciglio inarcato. L’opera esprime, nella intensità e nella bellezza del volto anziano, una interiorità lucida e drammatica. Sul piano espressivo, la forma annette con tratti di grande immediatezza, la forza di un impeto autorappresentativo.
L’intuito precede lo stesso modello classico, indubbiamente, ma non deborda, anzi vi si adegua, miracolosamente. Ne deriva un equilibrio straordinario tra antico e modernità.
Nonostante l’aura di leggenda che accompagnò la vita dell’artista, alimentata da biografi non sempre ispirati ad una corretta informazione storica; nonostante la fortuna commerciale dei suoi lavori, l’opera di Gemito è stata poco compresa; le mostre antologiche sulla sua produzione sono state rare.
Si ricordano le ultime, quella del 1953 al Palazzo Reale di Napoli e la selezione presentata a Spoleto, nel 1989, nell’ambito del Festival dei Due Mondi. Motivi diversi hanno condizionato l’attività espositiva e in parte l’approfondimento dell’arte di Gemito, come spiega il soprintendente Nicola Spinosa nel testo di presentazione del catalogo, edito da Electa- Napoli.
Innanzitutto la fragilità di molte sculture realizzate in terracotta, che hanno reso problematico il trasporto e il trasferimento delle opere; poi la presenza in raccolte pubbliche e private di bronzi sulla cui autenticità sono state espresse alcune riserve, sapendo che, ancora l’artista in vita , ma soprattutto dopo la sua morte, dagli originali furono arbitrariamente e spesso fraudolentemente ricavati multipli e modeste imitazioni e infine per la sostanziale insufficienza o inadeguatezza di studi volti alla comprensione, più che alla conoscenza della sua vasta produzione.
A tale mancanza di un’ampia ricognizione dell’arte di Gemito, intende rimediare l’odierna mostra napoletana, che ripercorre con oltre duecento opere le fasi salienti dell’attività del maestro, dalle terrecotte giovanili, di prodigiosa precocità, fino ai superbi bronzi della maturità.
Sono altresì presentati ottanta tra i disegni più significativi dell’artista, realizzati a penna, matita, carboncino, seppia, acquerello, provenienti da raccolte pubbliche e private, italiane e straniere.
Gemito è stato ritenuto a lungo un eccentrico rispetto ai movimenti innovatori di fine Ottocento e degli inizi del Novecento. In realtà egli era avvertito più di quanto appaia delle ricerche artistiche internazionali, di cui aveva seguito alcuni sviluppi da vicino, durante la sua permanenza parigina. Pure era amato soprattutto per le figure tratte dalla vita popolare napoletana, gli scugnizzi, i pescatorelli, gli acquaioli, le belle ‘guaglione’: una varietà umana che indubbiamente ha caratterizzato l’opera del maestro con un registro personalissimo, fondato sulla lettura d’anima dei personaggi, raccontati innanzitutto dentro, nello loro tratto umano e nel loro spirito popolare. È infatti all’interno di questo contesto ispirativo che l’artista recupera un riverbero di bellezza e di sensualità aperto al mito classico. I suoi scugnizzi sono opere indimenticabili, figure che possiedono una eleganza intrinseca e un rigore formale che non si colgono a primo sguardo, tanto è viva, accattivante, la freschezza e la naturalezza dei volti, degli atteggiamenti, riflesse in una materia mobile, luminosa, sensibilissima. Testimonianze di un’arte che nasceva innanzitutto da un rapimento interiore, oltre che da un attento sguardo alla realtà, che si alimentò e rinsaldò nei vicoli di Napoli.
Figlio di ignoti ( fu deposto il 18 luglio 1852 nella ‘Ruota’ dell’Annunziata), adottato da una famiglia umile, il piccolo Vincenzo condivise con il coetaneo Antonio Mancini, altro grande protagonista dell’arte a Napoli e fuori, le prime prove e i primi ansiti creativi: da scugnizzo, nelle botteghe dei locali maestri artigiani e poi presso lo studio di Stanislao Lista. Incontrò la scultura ellenistica forse presso il Museo Archeologico Nazionale, o più probabilmente attraverso le copie che venivano prodotte con le ‘ formature’ della fonderia dei Chiurazzi, e che erano diventate ormai merce di avido consumo per gli stranieri. La sua fu soprattutto una formazione da strada, che esercitò anche sul piano tecnico e operativo.
Negli ultimi anni della propria vita, dopo un ventennio di buio e folle isolamento, Gemito sperimentò nuove forme di fusione, realizzò superbi oggetti di arredo e di oreficeria. La mostra napoletana documenta anche questo aspetto meno noto dell’attività dell’artista: piccole sculture cesellate con ossessiva precisione, in metalli preziosi, secondo metodi sperimentali eredi di una lunga e fortunata tradizione locale, che affondava le sue radici in età ellenistico- romana, ma al tempo stesso di grande modernità.