Mensile di critica d'arte e recensioni fondato nel 1979 |
N. I - Dicembre 2008
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Sensitiva, segnata da un fine estetismo, in certo senso surreale la pittura di Lawrence Alma-Tadema, uno dei pi˜ popolari interpreti in epoca moderna del mondo classico, di cui è aperta a Napoli una mostra, presso il Museo Archeologico Nazionale. E tuttavia le figure, soprattutto quelle femminili, vere protagoniste dei suoi dipinti, sono di una realistica, sensuale bellezza, lontana da una semplice e didascalica evocazione del tempo greco e romano. È in questo singolare contrasto, in questa dicotomia il fascino della sua arte che si innesta, con quella di epigoni e seguaci, numerosi in tutta Europa, da Godward a Ryland, a Bulleid, a Margeton, a Spencer, in un clima vittoriano segnato dalla "nostalgia dell'antico" (è questo il sottotitolo della mostra), in bilico tra spirito neoromantico ed esotico collezionismo. Per converso il legame di Tadema con il mondo preraffaellita, non di rado evocato dagli storici, in relazione al suo stile figurativo, appare piuttosto fragile. L'artista frequentò gli artisti inglesi e soprattutto Madox Brown all'epoca del suo secondo matrimonio, allorché, morta la prima moglie, si unì con la londinese Laura Epps, anch'essa pittrice. Ma il suo percorso espressivo fu sostanzialmente differente, volto ad una sensibilità in parte ancora neoclassica, seppure riletta all'interno di un gusto fin de siècle e, appunto, vittoriano. Ciò che piuttosto appare interessante dell'arte di Tadema è il suo modo "scientifico" di ricostruire gli ambienti, di descrivere abiti e suppellettili, fondando su di una attenta, rigorosa ricerca storica ed archeologica. Olandese di nascita (frequentò, dopo essere stato avviato agli studi giuridici, l'Accademia di Belle Arti di Anversa), Lawrence si naturalizzò inglese e soprattutto in Inghilterra divenne popolare, essendo membro di importanti società culturali, a cominciare dalla celebre Royal Academy. La mostra napoletana in realtà non focalizza lo sguardo solo sulla sua arte, ma in generale sulla pittura neopompeiana ( una sezione è dedicata alla scuola italiana, con Palazzi, Morelli, Maccari, D'Orsi ed altri): su quel fenomeno artistico cioé che nel corso del diciannovesimo secolo si andò configurando come recupero mitico e idealizzato di un passato affiorante in modo cosÏ vivido dagli scavi delle antiche cittý vesuviane. A Pompei Tadema giungeva spesso dalle brume del Nord, trascorrendo all'ombra del Vesuvio lunghi periodi di ricerca archeologica. E singolarmente la sua arte, al di là della forza suggestiva della pittura, può essere letta come inventario degli oggetti realmente rinvenuti durante gli scavi. L'artista, d'altra parte, era collezionista raffinatissimo. La sua casa londinese, quella degli ultimi anni, acquistata nel 1884, appartenuta all'amico James Tissot, e ristrutturata completamente sull'onda della passione antiquaria, era un vero museo, di oggetti e di mobili soprattutto, alcuni dei quali realizzati su suo progetto, ad imitazione di quelli pompeiani. Dell'artista a Napoli sono presenti quattordici "quadri-museo", così definiti dai curatori Stefano De Caro, Eugenia Querci e Carlo Sisi per i loro riconoscibili riferimenti archeologici e per la stessa contestualizzazione dell'allestimento, e opere dei maggiori pittori neopompeiani, settantadue in tutto. Giorgio Agnisola
“L’arte è specchiamento della propria coscienza”, così scriveva Luciano Fabro nelle sue “Regole d’arte”, sottolineando la dimensione concettuale del suo lavoro, ma anche il suo disegno interiore. L’intero suo cammino artistico ha assunto la comunicazione come consapevole luogo di mediazione, in particolare tra l’uomo e la natura, e tra l’uomo e la macchina, una mediazione spirituale oltre che inventiva, indagando esperienze fondamentali del sentire, come la percezione dello spazio, del tatto, del colore o la misurazione delle distanze, non in una chiave meccanicistica o puramente fenomenica, ma sull’onda di una corrispondenza vitale tra interno ed esterno della vita e di un bisogno sincero di condividere, di partecipare. Sebbene la sua arte sia fondamentalmente mentale, non è scevra da una certa tensione narrativa e persino da una sottile ironia, come nelle celebri sagome dello stivale capovolto, la cui ombra riflessa appare a un tempo naturale e innaturale, allusiva ed evasiva. A Fabro, a pochi mesi dalla scomparsa, il Madre Museo D’Arte Donna Regina di Napoli dedica una retrospettiva degli anni 1963-‘67, curata dalla figlia Silvia Fabro con la collaborazione di Rudy Fuchs, con l’emblematico titolo Didactica Magna Minima Moralia, con cui si pongono in relazione due testi esemplificativi della tensione pedagogica, quello di Comenio del XVII secolo e Riflessioni sulla vita di Adorno, del ‘44-‘47. In realtà la mostra era stata già programmata e progettata dallo stesso artista ed è sulla scorta dei suoi quaderni di appunti che a Napoli 22 delle sue più significative opere degli anni della formazione vengono esposte, anni in cui si condensarono sul piano progettuale le tematiche forse più originali della sua produzione, che saranno poi sviluppate negli anni successivi, soprattutto nel solco dell’arte povera. Sconcerta come la semplicità di una forma elementare come il cubo (In cubo, 1966), di una forma razionale, emblematica di una geometria primaria, sia nella modalità proposta dall’artista, come spazio penetrabile al suo interno, un luogo in cui misurare il senso della propria libertà (interiore), negata dalle pareti della scatola, che impediscono, nel loro rigore assoluto, ogni valico verso l’oltre. E’ del resto il senso di libertà a segnare molte opere successive, il bisogno di espansione dello spirito vitale, di leonardesca memoria. “La cancellazione del senso di chiuso è il paradigma dello spazio”, scriverà infatti Fabro in quegli anni. Nascono da qui i suoi lavori sulla trasparenza, sull’attraversamento. Tubo da mettere tra i fiori (del 1963) è una interpretazione del raccordo tra l’uomo e la natura, ovvero tra l’esistente e l’intervento umano. L’artista piega dei tubi metallici innestati in vasi di fiori, in modo da rendere al minimo la forza di impatto e da creare un ideale ed emblematico continuum spirituale. Nel Raccordo anulare ( del 1963-‘64) un congegno consente a bracci metallici di assumere fisionomie differenti sotto l’azione della forza di gravità, comunicando a un tempo solidità e precarietà. Mentre la grande metallica Croce (del 1965), dalle braccia suscettibili di piccoli, quasi impercettibili movimenti, procura nel visitatore una sottile inquietudine. La mostra di Fabro si intreccerà nei giorni prossimi con un altro importante evento d’arte sempre al Madre, l’esposizione di due opere di Michelangelo Pistoletto (che sarà anche l’autore della tradizionale installazione di fine anno in Piazza Plebiscito), Luogo di raccoglimento e Il terzo paradiso (una terza opera, Venere degli stracci, sarà esposta nella Chiesa S. Maria di Donnaregina) , emblematiche della sua produzione più recente, tesa a recuperare suggestivamente luoghi dello spirito e spazi multiconfessionali. Giorgio Agnisola Napoli, Madre Museo D’Arte Donna Regina |
Curiosamente il nome di Don Lorenzo Milani, il noto autore di “Scuola di Barbiana”, è stato citato negli ultimi anni da varie fonti e in varie circostanze, soprattutto in sede politica, senza una reale conoscenza dei suoi scritti, della sua testimonianza umana e culturale. E’ questo il dato di partenza, solo in apparenza contingente, da cui muove il nuovo, intenso libro di Sergio Tanzarella, “Gli anni difficili, Lorenzo Milani, Tommaso Fiore e le Esperienze pastorali”, edito da Il pozzo di Giacobbe di Trapani in occasione dei quarant’anni della morte del parroco di Barbiana.
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